Un pomeriggio di un giorno con gli ascari

Cari e affezionati amici Lettori, un saluto da Massaua. Spedisco queste righe dalla stazione cablografica del Comando Generale del Regio Esercito di stanza nella capitale della novella colonia italiana d’Eritrea e porgo, assieme ai miei, i saluti del Comandante Generale Kosteris Marchese di Mangiamedda. Sono giunto in questa esotica e antica terra per dare diretta tertimonianza a Voi Lettori, della missione di civilizzazione che i militari e i funzionari del Regno vi stanno compiendo tra mille perigli e privazioni. Il viaggio che mi ha portato fin qui, cominciato alcune settimane or sono nel porto di Genova, è risultato assai piacevole. Molto interessante è stato il passaggio del piroscafo su cui viaggiavo, il Prolasso, attraverso lo stretto canale artificiale che congiunge il Mediterraneo e il Mar Rosso tra Porto Said e il villaggio di Suez e che venne progettato dal nostro compatriota Ingegner Negrelli ma realizzato da una compagnia di mangiarane intorno agli anni ‘60.
Il porto di Massaua non ha ancora le capacità per ospitare agevolmente le grandi navi della Real Marina, sia quelle militari che quelle civili, ma i lavori di sistemazione svolti dalla ditta Egildo Catrama & Figli di Benevento procedono speditamente come si evince nel dagherrotipo soprastante. Le operazioni comportano lo sgombero di alcune centinaia di capanne indigene, il loro incenerimento e lo spianamento del terreno per procedere successivamente alla cementificazione dell’area. Ai comprensivi negri, che sono ben consapevoli di quanto sia piccolo il sacrificio loro richiesto per il bene di questa nuova colonia del Regno, vengono generosamente concesse delle spaziose tende in juta, con cui poter vivere comodamente all’aria aperta ai margini del deserto che circonda la capitale, e un montone.
I lavoratori italiani sono alloggiati nelle baracche attigue a quelle dei nostri militari all’interno della zona interdetta naturalmente a tutti gli indigeni tranne servitori e ascari. La vita è assai dura e la nostalgia per la patria si fa sentire spesso, così per combattere la malinconia i nostri compatrioti di ogni ordine e grado si dilettano ai giuochi di casa nostra con le carte e con i coltelli. La ciaramela è stata ufficialmente bandita dal Comando a causa di alcune risse scoppiate tra militari di varie regioni italiane in merito al la corretta maniera di chiamare il gioco. Per i pochi giorni in cui ho avuto l’onore di dividere la loro camerata non mi sono certo tirato indietro dal partecipare ai ludi della caserma. Debbo ammettere però che, per quanto ameni, i anche i giochi tradizionali risultano alla millesima ripetizione alquanto monotoni e dietro richiesta insistente dei miei compagni di branda ho proposto loro le regole di un nuovo gioco di cui avevo letto durante la navigazione che mi avea portato in Eritrea. Nell’ultima edizione di The Triangle, rivista della Associazione Giovanile Maschile Cristiana che l’amico Edoardo Mezzacapra mi spedisce mensilmente dall’America, ho letto alcune regole proposte da un insegnante, tale James Naismith, riguardante un gioco tra due squadre che debbono infilare una palla in un cesto appeso ad un albero e a cui è stato precedentemene tolto il fondo. Purtroppo, messo alle strette, non mi venne alla mente niente di meglio ed effettivamente, una volta spiegate le 13 regole del Professor Naismith solo una manciata di connazionali volle abbandonare il tavolo del tresette per giocare una partita e tra essi ricordo con riconoscenza il sottotenente Domoteo Meneghin, il caporal maggiore Ciromenotti Marzorati, il brigadiere del genio militare Pancrazio Gallinari e il telegrafista, un bosniaco di nome Dalipagic.
Non essendo in numero sufficiente a disputare una partita regolamentare tra due squadre, i miei compagni ordinarono a cinque dei loro sottoposti ascari di giocare contro di noi. Dopo aver dato qualche delucidazione sulle regole anche a quei simpatici negri abbiamo iniziato una partita che si è subito dimostrata molto combattuta e caratterizzata da un approccio diverso delle due razze al gioco. Mentre noi cristiani, tenendoci a debita distanza dal canestro, bombardavamo da lontano con perizia da artigliere, gli africani, ben più prestanti, saltando come gazzelle depositavano la palla direttamente nel cesto della nostra squadra. Ad un certo punto gli ascari, avendo preso evidentemente mano per il giuoco, cominciarono ad avere il sopravvento esibendosi in curiosi virtuosismi come palleggiare la palla tra le gambe, passarsela tra loro guardando dall'altra parte e facendola roteare sulla punta di un dito senza farla cadere. Ad un certo punto uno di quei utilissimi negroni saltò così in alto e schiacciò la palla con tale forza nel cesto da mandarlo in mille pezzi e decretando per conseguenza la sconfitta della squadra africana per distruzione del materiale di gioco. Il caporale Meneghin inoltre comminò ai cinque ascari due giorni di corvè alle latrine della compagnia,al fine di smorzare quella baldanza eritrea che l’agonismo della partita stava portando alla luce. Al termine di quel pomeriggio così faticoso mi congedai dagli altri, declinando il loro invito a compiere qualche altro tiro all’unico cesto rimasto integro; in realtà non ebbi il coraggio di confessare loro di trovare quel giuoco assai infantile e monotono e senza nessuna attrattiva che possa spingere chicchessia a volerlo praticare con costanza o di preferirlo ad attività ben più entusiasmanti come il tamburello, il fiolet e la ruzzola.
Oh amata Patria quanto mi manchi!

Mastro Ciliegia, Massaua, 12 febbraio 1892.

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